Adelaide Ricci di Canapaia, 2009
La vita: sostantivo femminile (e singolare)
L’artista che incontra la materia la vive nel segno della sua lingua
originaria, che è al tempo stesso nativa e viscerale perché radicata non
solo nella storia del corpo e dell’anima ma anche in quella, di
necessità misteriosa, dello spirito.
Questa lingua affiora in punta di respiro, poeti artisti figurativi
musicisti tutti. Parla della casa, che è prima quella in cui si nasce,
poi altro orizzonte, infine soglia e ritorno.
Perciò la storia di Walter Madoi, fra i primi dipinti, prende avvio
dalla Casa del nonno (1943) e, prima ancora, dalla giovane figura
femminile de L’attesa (1939).
I critici hanno giustamente sottolineato, in diversi modi, la
consistenza e i ruoli e i significati delle donne di Madoi. Da quelle
chiamate per nome (Isabella per prima, Lida, Lella...) a quelle evocate
per un dettaglio o un tratto di essenza (la giornalista, la donna in
abito da sera, il ritratto dai capelli biondi ...), fino a una accesa
dea Diana sui muri di Sesta (metà anni Sessanta).
Ma c’è una presenza forse più enigmatica, resa all’essenziale, che
proprio sui muri della chiesa di Sesta si fa strada, nelle parvenze
femminili fra gli astanti ritratti in scenografia, fino alla donna sola,
bardata in nero – avvolta e quasi nascosta, ma sono segni di altro
svelarsi –, ai piedi della Croce, colta in una posa domestica e mite, lo
sguardo come perso, le mani raccolte e bianche.
È, ancora, la velata e scura Maddalena del ’64, ricompare in veste quasi
apocrifa fra le Figure per la strada dipinte nel 1965, poi si palesa in
tre dimensioni l’anno seguente come Madonna col mantello, un busto in
gesso.
Torna da protagonista al centro del Magnificat, la grande vetrata della
chiesa della Sacra Famiglia alle Vallette di Torino (1969): gli occhi
più schiusi, il filo stretto di un sorriso (nei tratti del volto della
moglie), è certo la Madonna dell’annuncio, futura madre, ma è anche e
anzitutto quella presenza ricorrente, spoglia di orpelli. Una donna di
semplice chiarezza, solo viso e mani, protetta da un manto d’ombra fino
al capo. Eccola anche alla base della vetrata, quasi sfuggente nel gesto
della mano levata.
Appare nel 1970 sulle pareti della chiesa di San Genesio ad Albazzano,
chiave visiva del dramma della Madre e del Figlio.
Poi prende forma nel monumento bronzeo alla Sofferenza realizzato per
San Donato Milanese e, di nuovo, in quello incompiuto per la città di
Genova (entrambi del 1975); qui è una donna-pietà china, braccia aperte,
mani spalancate, un gesto eterno, forse meno immediatamente drammatico
di quanto appaia a prima vista, e invece come sospeso a smorzare e quasi
spegnere del tutto la tensione del dolore. Torna a essere Maria di
Nazaret in alcuni studi dei primi anni Settanta. Infine si sdoppia
nell’ultimo dipinto, l’abside della Chiesa di costa Sant’Abramo: due
Marie, o la stessa, due momenti e due eccessi, quello della sofferenza
irruente e quello della composta saggezza, con il dubbio lasciato
all’osservatore, il dubbio di cosa sia più umano, cosa più vitale. Due
perché – altra possibile lettura – è fra due che scintilla l’equilibrio.
L’ha accompagnato sempre, questa figura, chiara e scura come le volute
di fumo della sigaretta sua compagna nei ritratti fotografici che ancora
possiamo vedere, dagli anni Sessanta all’ultimo autunno. Fino a un
testamento artistico lasciato – non a caso – sul muro di fondo di una
chiesa allora curata da un altro uomo eccezionale, don Ivo Azzali. Fino
alla fine, che è altro inizio, se si torna a casa.
Allegoria e segno tanto della gioia quanto del dolore e di tutte le loro
pieghe nascoste, silenziosa e plateale, questa eterna Maria non poteva
che incarnare tratti femminili, concreti ma in filigrana, nella lingua
parlata da un artista che ha saputo raccontarci la sostanza enigmatica
della vita. Un sostantivo, appunto, femminile e – del tutto – singolare.